se
li abbiamo scacciati dai loro templi
non
per questo gli dei sono morti.
O
terra
di
Ionia, sei tu ch’essi amano ancora.
Quando
il mattino d’agosto ti avvolge tutta
nella
tua aria passa un vigore di quella loro
vita
e una figura d’efebo, indecisa
immateriale
a
volte corre via veloce
sull’alto
delle tue colline.
(Costantinos
Kavafis)
Lo Ionio e la Locride: la
presenza del mare nella letteratura novecentesca della Locride
Corrado
Alvaro in Memoria e vita (da
Il viaggio) evoca,
in una prospettiva memoriale densa di emozioni ancora vive, il paese natio, San
Luca, nel quale egli ha passato l'infanzia "fra tante cose che parlavano al
cuore, dolci e ingenue, aspre e, perchè aspre, dolenti e feconde d'amore
e ... Da noi s'era attendato Pirro, poi Annibale; siamo in territorio locrese, e
la memoria di quella vita affiora di quando in quando. Esistono ancora favole
che confondono in una le civiltà che vi approdarono. Di quella greca in
particolare - dice Alvaro - rimangono ancora antichi canti e un fondo
linguistico”.
E
la civiltà greca è a noi giunta dal mare, quel mare che riverbera
sulla nostra terra infinite suggestioni, puntualmente colte dai suoi narratori
in momenti di intenso lirismo.
Abbiamo
voluto ricercare la presenza dello Ionio in alcune opere di narratori della
Locride, per cogliere quelle suggestioni e soffermarci sul significato che ha
avuto e continua ad avere il rapporto col mare per i suoi abitanti, non
limitandoci però a sottolineare solo echi di poesia, ma volgendo lo
sguardo anche alla vita degli uomini, che negli spettacoli della natura si
specchia e con essi si confronta spesso in un drammatico contrasto. Procederemo,
nel nostro percorso immaginario, dalla montagna verso il mare, per tornare
infine, a ritroso, in montagna.
E'
il primo capitolo di Gente in Aspromonte. Si ridesta alla vita la
montagna, alla quale la gente "comincia a salire col vento dell'estate".
Si levano dai paesi lungo il mare i fuochi dei razzi, quasi "segni
indicatori che là sono le case là i santi coi loro volti di
popolani che non hanno più da faticare e stanno nel silenzio spazioso
delle chiese". Sono le "case di muro", quelle che il figlio del
pastore Argirò, il piccolo Antonello, non riesce neppure ad immaginare,
abituato a vivere nelle capanne fra i monti. Il mare, meglio ancora "la
marina", è dunque simbolo di una civiltà che conosce
l'agiatezza, il progresso, contrapposta alla dura vita dei pastori, che sognano
un riscatto e sembrano quasi sperarlo guardando quei santi con i “volti di
popolani”, che sembrano essersi finalmente affrancati dalla fatica della dura
esistenza quotidiana, godendosi comodità ed agiatezza prima ignote nel
"silenzio spazioso" delle loro chiese, anch'esse "case di muro".
Così dall'entroterra della Locride si vedeva la costa dello Ionio. E' la
prima prospettiva di lettura che vogliamo offrire: dal mare è venuta con
gli antichi Greci la civiltà alla nostra terra, la “marina”
rappresentava la civiltà per gli abitanti dell' entroterra locrese
alvariano, la modernità, il progresso, il luogo degli scambi e
dell’integrazione culturale, dove vivevano i signori e prima che altrove
giungevano le novità, anche perché lungo il mare correva la
ferrovia e il telegrafo. La “gente di marina” manifestava atteggiamenti che
apparivano a volte scandalosamente disinibiti alla gente che veniva
dall’entroterra aspromontano e che testimoniavano l'ormai avviata
emancipazione dalla secolare cultura agro-pastorale: al riguardo, sono
interessanti le notazioni che si colgono in uno dei racconti de L'amata alla
finestra, intitolato Stagione sull’
Ionio, nel quale Alvaro ricorda la villeggiatura al mare dei paesani
dell’entroterra, che percorrevano venti chilometri a piedi o sulle cavalcature
portandosi dietro materassi, lettiere, biancheria, derrate alimentari di ogni
genere, che Alvaro elenca minuziosamente. Avevano provveduto ad affittare un
paio di stanze che davano sulla ferrovia e alberi da frutto nei campi intorno al
paese di marina “con il diritto di coglierne per tutta la stagione”. Alvaro
rileva la “diffidenza” della gente dell’entroterra e la contrappone alla
“scioltezza della gente di marina “, al loro “facile sarcasmo”, alla
“lingua pronta”. Le donne di marina sono “intraprendenti”, hanno “viso
di zingare” ed appaiono alla gente dell’entroterra “virilizzate”: il
narratore le coglie in un atteggiamento decisamente mascolino, mentre
“sedevano a gambe larghe e i gomiti poggiati sulle ginocchia”; gli uomini di
marina sono invece “molli, dal passo dondolante”, con l’acconciatura
estrosa dei loro capelli, quasi sbarazzina, diremmo noi, se confrontata
con la severa gravità
delle ordinate acconciature della gente di montagna. Per non parlare
dell’industria della gente di
marina, che si rivela nelle pratica del negoziare: la gente dell’entroterra
“ben provveduta” portava tutto il necessario con sé andando a
villeggiare al mare, e rifiutava, specialmente se era di condizione agiata, di
“andare a comperare a piccoli pesi in bottega”, ed in ogni caso, ci si passi
il termine, snobbava quasi i negozi, preferendo che “i ragazzi
e le donne venute dai campi vicini o dalla pesca offrissero
avventurosamente quello che le botteghe vendevano “prosaicamente”. Abituati
a ben altre difficoltà per procurarsi il necessario alla vita,
rifiutavano certe agevolazioni e semplificazioni della cosiddetta civiltà
urbana, dovevano rendere “avventuroso” anche l’acquisto degli ortaggi:
Alvaro sottolinea, per esempio, come l’acquisto dei pomodori divenisse
l’occasione per la scoperta della realtà di un paese vicino, che
tuttavia, con la concezione delle distanze che si aveva all’epoca, diviene
quasi “estero”. E la marina è anche il luogo ove corre la ferrovia,
emblema stesso del progresso tra Otto e Novecento ed elemento qualificante del
paesaggio antropizzato che accompagna, insieme alla linea del telegrafo e
l’immancabile agave, la costa dello Ionio, caratterizzandola e rendendola ben
riconoscibile in quella che è un po’ la sua iconografia novecentesca.
La marina è pulsante di vita, “mette in allegria”, come scrive Alvaro
sempre in Stagione sull’ Ionio, e,
dal punto di vista del villeggiante che proviene dall’entroterra, il narratore
afferma che essa “mette in
allegria” anche per la presenza del treno. E questo treno della ferrovia che
si stende lungo lo Ionio alvariano, quello della nostra terra, sembra ridare
vita all’antica civiltà greca. La fisionomia quasi comica delle
locomotive a vapore “acquistava un’apparenza rispettabile, umana Di un'altra
umanità, d'una quasi mitologia". Le locomotive del compartimento di
quella che era stata la Magna Grecia avevano infatti nomi greci. Alvaro ricorda
locomotive che recavano sull'involucro della caldaia, in grossi caratteri di
lucido ottone, i nomi di Temistocle, Milziade, Pericle, Epaminonda, Sofocle ed
Ibico. Col treno passava sotto gli occhi degli abitanti della Locride la storia
gloriosa dell' antica grecità, che è anche storia di questa terra,
anzi il treno che correva lungo la costa del "greco mar", per magico
sortilegio, diveniva l'antico generale o poeta greco redivivo e trasfigurato in
una dimensione mitica, chiamato a scandire con i suoi passaggi ripetuti il tempo
in luoghi nei quali il passato è necessariamente sentito come un eterno
presente "vago delle speranze del domani". Leggiamo il passo di
Alvaro: "la sera passava Temistocle soffiando il respiro di fuoco nell'aria
di opale e piena di speranza del domani, e i ragazzi dalle strade, dalle
finestre, dalle spiagge, leggevano quel nome ad alta voce mentre già
l'ultimo carro col gabbiotto del freno pareva lasciarsi trascinare contro voglia
verso Spartivento. Lo si sentiva
rumoreggiare sui lunghi ponti dei torrenti; ed era già notte". Il
mattino veniva invece annunziato dall’arrivo di un’altra locomotiva, che
viene ricordata alla fine del racconto e che aveva nome da un famoso generale
tebano, Epaminonda.
Il
respiro di fuoco di Temistocle, con la sua potenza magicamente evocatrice di
antichi mostri del mito, ci offre lo spunto per cogliere le connotazioni di
intenso lirismo con le quali il Mar Ionio della costa della Locride entra nella
narrazione alvariana. Sempre ai villeggianti che si recavano al mare dai paesi
lungo i monti ed i colli che si affacciano sullo Ionio “Il mare veniva
incontro con le sue onde bianche come un armento, e non arrivava mai, e tornava
indietro e le foglie dure dei pioppi tremavano alla brezza crepitando in un
sordo concerto.” Il mare è creatura viva per Alvaro, quasi presenza
numinosa, ha un respiro:”Il mare Ionio respira pesante, divora e scava la
spiaggia, si srotola come un tappeto mobile “, come scrive nell’Aquila
di mare; un’altra volta rimane invece “senza respiro”, “torpido”,
“di piombo”, forse misteriosamente attonito, come gli uomini che corrono verso
di esso spaventati dopo una scossa di terremoto
(è sempre Stagione
sull’Ionio). In Altri amori (un
altro racconto de L’amata alla finestra ),
manda invece “un alito fresco, carico dell’odore dell’alga, un respiro
profondo e libero”. Il signor Toma, personaggio del racconto, lo guarda con
gli occhi della donna che ha amato di un amore illecito, tenuto segreto per
diciannove anni, durante i quali ella è vissuta rinchiusa in una casa
dalla quale si vede un “pezzo di mare, la costa lontana e, più oltre, i
monti”: è la signora Margherita, che tanti anni ha passato ad “udire
le parole che le portava il vento dalle imbarcazioni sul mare, il fischio del
treno sulla costa lontana”. A quel paesaggio surreale, con la vaghezza
dell’infinito, affidava probabilmente le sue speranze, aspettando il giorno in
cui avrebbe potuto vivere pubblicamente il suo amore, uscire quindi dalla sua
segregazione e tornare alla vita vera. Ma la donna non si accorgeva dello
scorrere inesorabile del tempo, dello scorrere della storia e del mutare dei
costumi: tutto le era sfuggito, come la sua vita. Proprio il mare, visto da una
finestra, davanti al quale ella si era estraniata dalla vita vera, ma questa
volta un mare diversamente connotato dal narratore, ossia non più
scenario di un paesaggio deserto ed aspro, bensì caratterizzato dalla la
spiaggia animata dalla grazia dei corpi nudi dei bagnanti e delle bagnanti, un
mare immerso nella luce dolce del tramonto, con il sole “più amorevole”,
che conferisce ad esso una calda tonalità di colore, il turchino, quel
mare, dicevamo, rivela alla signora Margherita l’assurdità della
condizione in cui si è lasciata vivere per tanti anni, senza forse
accorgersi che il suo corpo, consacrato ad un solo uomo, invecchiava.
Sulla spiaggia al tramonto, finalmente libera di uscire di casa, Margherita
guarda i bagnanti nudi, e fra loro la nipote Erminia: non poteva neppure
immaginare che ora le donne possono mostrare il loro corpo sulla spiaggia.
Guarda il mare e misura forse il tempo passato, davanti alla spiaggia ricoperta
dei corpi dei bagnanti, che esprime “libertà”, “vita”, “pace
animale simile a quella che regna nei fiori di un giardino”. Ma il confronto
con la realtà “vera” la
condurrà alla follia.
Nel racconto L’aquila di mare, sempre ne L’amata
alla finestra, lo Jonio è, diversamente, presenza ostile, minacciosa,
è solitudine selvaggia e primigenia, contrapposta al brulicare della
“vita vera” nel consorzio umano, almeno agli occhi del vecchio Argiropulo,
ex casellante al chilometro 360 della ferrovia lungo la costa; egli non accetta
che il figlio abbia scelto di vivere emancipandosi da lui, senza seguire le sue
orme ed accettare di affiancarlo e sostituirlo un giorno nell’attività
di affittacamere per i bagnanti che giungono d’estate sulla costa dello Ionio:
Argiropulo non accetta che il figlio abbia scelto di fare il pescatore in quel
mare “vietato che ha pochi pescatori”, quel mare ostile dal “respiro
pesante”, che “divora e scava la spiaggia” e custodisce gelosamente i suoi
pesci “comodi e sicuri come le belve nelle grandi foreste”. Il Mar Ionio per
Argiropulo è dunque come una selva ostile, nella quale è meglio
che l’uomo non si avventuri. “Che bisogno c’era di correre il mare per
guadagnarsi la vita?”, pensa Argiropulo: egli rifiuta la solitudine delle
distese marine a contatto con la potenza della natura, “la pesca dove si sta
soli, dove non si pensa, dove si passano la notti senza altro sentimento che
quello delle onde”. Il mare appare ad Argiropulo forse luogo troppo
“astratto” rispetto alla vita vera, di una astrazione quasi primeva, anzi
diremmo quasi luogo sottratto al tempo della storia, quella fatta dagli uomini:
quel mare con “le sue vele simili a difficili problemi di geometria, le barche
fatte come conchiglie galleggianti, ancora come le fece il primo uomo”. Meglio
vivere nella concretezza della vita associata dove “si formulano i discorsi da
fare”, meglio “aver da fare con gli uomini”, brigare, arricchirsi,
diventare padroni di qualche cosa “gli uomini, ecco la vita”
per Argiropulo. “Ma il figlio non voleva capire. Andava dietro alla
schiuma del mare”, scrive Alvaro. Ed alla fine del breve racconto il vecchio
Argiropulo fa mangiare dai suoi famelici cani il cadavere dell’aquila di mare,
lo strano uccello che pare un essere che ha “sovvertito le leggi di natura”,
uno “scampolo mal riuscito della creazione” (il narratore incarna qui sempre
il punto di vista di Argiropulo, al quale evidentemente quell’animale comunica
il senso della propria estraneità alla mentalità del pescatore a
contatto con la lontana vastità del mare), l’aquila che il figlio aveva
catturato moribonda e liberato, prima che morte la cogliesse, per un ultimo volo
verso le distese azzurre che le erano appartenute, l’aquila simbolo di quello
Ionio che per Argiropulo è un “regno pagano, abitato da false apparenze”
e per suo figlio è invece emblema della libertà, che egli ha
scelto per sè nel vasto respiro della natura.
In
Gente in Aspromonte il Mar Ionio
diviene invece presenza lontana e suggestiva, verso la quale si protendono forse
i desideri e le speranze dei protagonisti: nel capitolo I, quando l’Argirò
ed il figlioletto Antonello stanno per partire alla volta del paese a valle,
dove il povero pastore dovrà tentare di giustificarsi col padrone per la
perdita di alcuni capi di bestiame, “Si vedeva di lontano il mare balenante
nell’ombra serale, che laggiù non era ancora arrivata, e davanti al
mare una montagna che pareva un dito teso, e ancora più vicino la
striscia bianca del torrente”. Riconosciamo i paesaggi a noi familiari, “i
paesaggi che hanno consolato molti prima di noi”, come scrive sempre lo stesso
Alvaro. Sempre in Gente in Aspromonte,
nel capitolo V, nel contesto di uno splendido notturno, che sembra voler
consolare ed infondere speranza nell’animo del povero pastore e del
figlioletto, il mare, insieme alle altre presenze naturali, si “intinge di
luna”: “La sera era chiara, c’era la luna. Erano intinti di luna gli
alberi e la montagna, il mare lontano”.
Suggestioni
abbastanza vicine a quelle alvariane si possono rinvenire in alcuni scorci
paesaggistici di Terra di emigranti di
Saverio Strati: anche Strati canta la bellezza della natura, la forza delle
tradizioni, i tenaci affetti familiari, la solidarietà umana, la
nostalgia inestinguibile di coloro che hanno abbandonato la nostra terra per
emigrare in cerca di lavoro. Quella che al tempo degli antichi greci era terra
di arrivi, meta di un sogno di prosperità economica, è divenuta
terra di tristi partenze. Il protagonista, Giambattista osserva anch’egli il
mare dall’alto della montagna. Il nostro percorso di lettura, dopo essere
disceso alla marina, torna dunque tra i monti della Locride: “Il sole cominciò
a sorgere dal mare che stava laggiù a pochi chilometri come una coperta
azzurra sul letto”. E’ un mare che sembra voler coprire teneramente i sogni
degli uomini. Il nostro mare non è chiuso all’orizzonte da altre terre,
e ciò conferisce al paesaggio la connotazione dell’indefinitezza
spaziale, che diviene anche temporale quando si vogliano evocare i ricordi e le
immagini della storia che a noi è venuta dal mare. Giambattista, il
protagonista del racconto di Strati, ricorda l’arrivo ad un’aia in montagna,
dopo un lungo cammino per sentieri impervi: “Il paesaggio era ampio, anzi
infinito per il mare che stava laggiù di faccia ed era azzurro e
tranquillo”. Il mare osservato dalla montagna, laggiù in basso, solcato
da un veliero, gli dà la sensazione di “essere su una nuvola”, una
sensazione definita “straordinaria”. Quel mare, insieme al paese, alle
montagne, alle fiumare era nei sogni degli emigranti che scrivevano al paese.
Giambattista si ricorderà dello “spazio infinito che c’era lassù
nell’aia” correndo in treno attraverso i monti del San Gottardo, in Svizzera,
monti alti e opprimenti, chiusi da un cielo nuvoloso. E’ il lungo viaggio in
Germania, alla ricerca del padre emigrato. Il mare Ionio ogni tanto appare nelle
prime due parti del racconto, comunica sensazioni di bellezza infinita, si sposa
ai sogni del giovane protagonista che si apre alla vita ed alla durezza del
lavoro in una “terra ingrata”, posta “davanti alla bocca dello scirocco”,
dove sono tanti gli stenti “per un pugno di grano”, come osserva la madre di
Giambattista. Nello stesso racconto troviamo, come in Alvaro, il mar Ionio
protagonista di notturni, illuminato dalla luna, dorato, solcato dalle luci di
misteriosi bastimenti che vanno verso lo stretto di Messina. Citiamo quello che
ci sembra il passo più bello ed emblematico:”la stella polare già
brillava e una fetta di luna sospesa sul mare ne illuminava una striscia che
sembrava una via dorata”.Giambattista sente il cuore gonfiarsi, è
sedotto da quello spettacolo e dal quel silenzio e le sue fantasticherie (sogna
che il fantasma di un brigante famoso lo porti sul suo cavallo volante e gli
doni il suo tesoro, che gli possa permettere di studiare in città e di
imparare “cose e cose”) esprimono un desiderio di riscatto sociale. La maestà
suggestiva del paesaggio della nostra terra infonde nell’animo di chi è
abituato a contemplarlo grandi ambizioni: non è un paesaggio piatto,
angusto, il mare è appunto “la via dorata” che si apre verso
l’infinito, l’ignoto, la sfida, il mondo. (Lavoro realizzato dagli
allievi della classe V C ad indirizzo classico sperimentale “Brocca” del
Liceo Scientifico “F. La Cava” di Bovalino (RC), nell’anno scolastico
2004-05, con la guida del docente di Italiano, prof. Giuseppe Tomaselli).
Lingua
greca e dialetti della Locride
Lo studio della lingua greca antica e moderna ci ha sensibilizzato a
riscoprire e a valorizzare il nostro grande patrimonio linguistico nascosto e
spesso dimenticato. Questo ci ha fatto prendere coscienza della nostra identità
magno-greca e ci ha stimolato a condurre l'attuale ricerca linguistica che
è una prova tangibile di quanto ancora sia vivo il sostrato della lingua
greca nei paesi della Locride, specialmente in quelli interni.
Il sostrato linguistico greco ha resistito al latino dei dominatori allo
stesso modo con cui la Grecia ha potuto mantenere la stessa lingua, in netto
contrasto con la disponibilità di altri popoli (Etruschi, Galli, Daci) ad
accogliere senza riluttanza la lingua latina. Un tempo l'uso della lingua greca
era stato così vivo che il dotto inglese Ruggero Bacone nel
"Compendium philosophiae" raccomanda che si facciano venire
dall'Italia meridionale maestri greci e libri greci.
Nel 1821 un giovane studioso tedesco, Carlo Witte, riferisce che nelle
vallate meridionali dell'Aspromonte viveva una popolazione di pastori e di
contadini di lingua greca con uno stadio di civiltà affatto primitiva.
Ancora oggi cospicue testimonianze dell'antica civiltà pastorale
possono essere rinvenute nel territorio, e ciò è piuttosto
evidente anche partendo da uno studio del lessico che conserva fin troppo
evidenti tracce dell'antica lingua greca.
I settori da noi presi di seguito in esame sono: agricoltura, pastorizia,
artigianato, vita domestica.
NOMI DI PIANTE
1)
Gràppidu "frutto del pero selvatico" - agriapidon.
2)
Agromulu "mela selvatica" da agriomhlon.
3)
Cammaruni Euforbia da kammarion
4)
Capittunìa "specie di salvia dai fiori gialli e melliflui" da kapitouria.
5)
Crocassu "cardone selvatico" agriokanqon.
6)
Ndraca
“porcellana” da andraclh
7)Pokidia
“fichi secchi di qualità inferiore” da
apocidia
8)Rizza
“torsolo del cavolo” da riza
NOMI DI ANIMALI
1))Casentulu
“lombrico” da ghV
enteroV
2)Càmpa
“bruco” da kamph
3)Galèu
“gufo” da aigwlioV
4))Mèglissa
“vespa” da melissa
5)Pitirriu
“pettirosso” da purriaV
6)Sagumida
“Salamandra” da samiamidion
7)Vròsacu
o brosacu “ranocchio” da botracoV
8)Scrupiu
“assiolo” da sklwpion
9)Zafrata
“lucertola” da saurada
10)Zinnapotamu
“lontra” da kunopotamoV
VITA
DOMESTICA
1)Curupegliu
“brocca rotta o cesto senza manico”da kouroupion
2)Crisara
“staccio per la farina” da krhsara
3)Catoju
“sotterraneo di una casa” da katwgeion
4))Pedànimu
“piede dell’arcolaio” da podanemoV
5)Pitàrra
“recipiente di terracotta per l’olio” da piqoV
6))Pira
“riverbero del forno” da pura
7)Prosdemia
“ fili rimasti dell’ordito” da prosdemion
8)Tulupu
“fagotto diordinato” da toluph
LA
FAMIGLIA
1)Jania
“ stirpe, famiglia” da genea
2))Nipiu
“bambino “ da nhpion
3)Pappua
“nonno” da papouV
4)Sumpesseru
“consuocero” da sumpenqeroV
2)Aspa
“malattia che colpisce i caprini” da
ayh
3)Magulà
“parotite” da magoulon
COSTITUZIONE
DEL TERRENO
1)Crasida
“braccio di un fiume” da klasida
2)Limacata
“terreno melmoso” da leimax
3)Mavropulo
“terreno cretaceo di colore nerastro” da
maurophloV
4)Sporija
“striscia di campo seminata” da sporia
(Lavoro
realizzato dagli allievi della classe IV C ad indirizzo classico sperimentale
“Brocca” del Liceo Scientifico “F. La Cava” di Bovalino (RC),
nell’anno scolastico 2004-05, con la guida delle docenti di Greco e Neogreco,
prof.ssa Maria Grazia Melina e prof.ssa Tiziana Laganà).
Ricordi di un memorabile viaggio in Grecia
Non
è stato il solito viaggio d’istruzione, bensì un gemellaggio con
i ragazzi del più antico Liceo di Atene, il Proto Pyramatikò, che
ci ha permesso di conoscere il calore di questa terra e dei suoi abitanti. E’
stato significativo sentire come quei valori di ospitalità, che tanta
parte ebbero nei racconti di Omero e che furono sempre sacri a Zeus, quei valori
rispettati e onorati, secondo le testimonianze della letteratura greca che
abbiamo studiato sui banchi, siano ancora vivi nel cuore del popolo greco e
siano stati lasciati in eredità anche a noi, uomini e donne della Magna
Grecia, come tante altre cose. Infatti un gruppo di studenti ci ha accolto e
guidato nei posto più belli della città, fra i quali l’Acropoli,
il Pireo; ma abbiamo visitato anche altri siti: Delfi e Micene, Epidauro e Capo
Sunion, dove un’immagine ci ha colpito particolarmente: lì, su quel
promontorio, con alle spalle il tempio di Poseidone, immerso in un tramonto
livido e battuto da un vento tagliente, si vedeva verso Occidente l’Isola di
Patroclo e, sotto i nostri piedi, l’acqua ribolliva come in un racconto
omerico. Il ricordo di questi luoghi ci emoziona ancora. Tante infatti sono
state le emozioni che ci hanno suscitato: meraviglia che unita alla fantasia ci
ha portato indietro nel tempo, fino a riuscire quasi a vedere Agamennone che
varca felice la Porta dei Leoni, ignaro del destino che l’attendeva; Fidia che
dirige il cantiere del Partendone, le cui proporzioni, grandezze e armonie lo
rendono tutt’ora ammirevole … ci sembra ancora di poter vedere, in quel giorno
di pioggia, il pavimento che luccica, il colonnato quasi rigato dalle lacrime e
la città è un brusio lontano. Diceva Pericle: “Amiamo la
bellezza ma con moderazione”: è una frase stupenda. Quella costruzione
fatta di solo tre linee – verticale, orizzontale e obliqua- è uno
scorcio unico di bellezza sobria e, perciò, perfetta; sembrano ancora lì
i grandi agoni tragici dei più antichi registi, degni sicuramente
dell’Oscar, recitati nel teatro di Dioniso sotto l’Acropoli o nel fantastico
teatro di Epidauro.
Molto
importante è stata, grazie anche alla conoscenza della lingua greca
moderna, l’amicizia stretta con i ragazzi del Liceo di Atene, che ci è
stata dimostrata, in particolare, nella festa organizzata in onore del nostro
arrivo presso la stessa sede del Liceo. Qui siamo venuti a contatto con le
tradizioni greche, sia culinarie che folkloristiche. Alla danza del sirtaki noi
abbiamo aggiunto la nostra tipica tarantella, accompagnata dalla musica dal vivo
suonata con i nostri tradizionali strumenti. A questo si è aggiunto uno
scambio di doni.
Significativo
è stato il momento in cui abbiamo ricevuto in dono, come segno tangibile
di amicizia e fraternità, delle medaglie riproducenti ramoscelli di ulivo
e una colomba, simboli antichi e moderni del nostro Mediterraneo.
Per
sigillare questo gemellaggio, anche noi abbiamo ospitato gli amici greci in
Calabria, e questo ha rafforzato ancora di più il legame tra le nostre
scuole. Ci sentiamo di dire che questo ha influito molto sulla nostra formazione
culturale e umana, e sicuramente la stessa esperienza sarà vissuta anche
dai nostri compagni ai quali quest’anno abbiamo passato il testimone e da
coloro che si succederanno sui banchi della nostra scuola negli anni a venire.
In
Grecia niente è come altrove. Il mare penetra fino ai piedi delle
montagne … a volte però sembra che siano le montagne a spuntare dal
mare.
Questi
luoghi di incredibile fascino furono la dimora degli dei. Nonostante le
metamorfosi moderne, è ancora un paese da sogno!
Come vedete lo Ionio, ben lungi
dall’essere stato una barriera inviolabile, ha costituito “un ponte”, come
bene ha sottolineato la preside Sakandani del liceo Protopiramatikò di
Atene, durante la cerimonia in occasione della visita del gemellaggio in atto
tra la sua scuola e il nostro liceo ”F. La Cava”: ed è veramente un
ponte di collegamento, poiché il gemellaggio è stato realmente per
noi un momento di integrazione culturale, di rafforzamento dei legami, di
educazione alla pace, di riflessione attenta sul valore della riscoperta da noi
attuata, attraverso gli studi liceali, delle radici storico-culturali del nostro
territorio nel confronto con la civiltà Greca moderna.
Continuare a fare a ritroso il
viaggio che tanti secoli fa hanno fatto i nostri padri per noi non è
nostalgia del passato come negazione del presente, ma conoscenza e
riappropriazione della nostra incancellabile identità culturale.
Dalle nostre radici, come le
piante, traiamo alimento per crescere e sviluppare tutti gli aspetti della
nostra personalità, sottraendoci al rischio di una massificazione senza
ritorno che frenerebbe ogni slancio vitale e mortificherebbe l’autonomia e la
creatività di ognuno di noi. (Lavoro
realizzato dagli allievi delle classi IV e V C ad indirizzo classico sperimentale “Brocca” del
Liceo Scientifico “F. La Cava” di Bovalino (RC), nell’anno scolastico
2004-05, con la guida delle docenti di Greco prof.ssa Maria Grazia Melina e
prof.ssa Tiziana Laganà).
ÅðéóôñïöÞ óôçí áñ÷Þ ôçò óåëßäáò